La notizia di fonte scientifica è di quelle da preoccupare i buongustai e in particolari gli amanti di pasta: da qui a qualche anno non avremo più pasta al dente. Secondo il Centro di Ricerca per la genomica del Cra (Consiglio per la ricerca e la sperimentazione in agricoltura) di Fiorenzuola d’Arda (Piacenza) con gli attuali tassi di inquinamento, avremo raccolti di grano più ricchi, anche del 20%, ma il frumento conterrà meno proteine, fattore determinante per la tenuta della pasta in cottura. La previsione addirittura è da “paura”: la cottura perfetta, vanto della pastasciutta all’italiana, sarà solo un bel ricordo entro i prossimi 40 anni. E dunque – commenta la Cia-Confederazione Italiana Agricoltori Basilicata – se secondo i ricercatori per mantenere la pasta al dente “servirà o una riduzione delle emissioni o un lungimirante lavoro di miglioramento genetico”, quello che sicuramente possono fare i nostri cerealicoltori è rafforzare la qualità del grano duro, a partire dalla tradizionale varietà Senatore Cappelli che ha subito negli anni forti riduzioni di produzione. Solo un buon grano duro – evidenzia la Cia – può consentire di garantire il gustoso piatto di pasta in tavola, insieme a varietà di grano con caratteristiche adeguate ai diversi climi del nostro territorio. Uno sforzo che ci richiede il primo prodotto-simbolo del “made in Italy” proprio quando all’estero stanno facendo di tutto per imparare a cuocere la pasta «come si fa in Italia» superando la diffusa (sempre all’estero) pasta troppo cotta.
Il settore cerealicolo lucano – si sottolinea nella nota – è in grave affanno ed ha necessità di nuove politiche che diano reali sostegni alle imprese agricole che non possono continuare ad operare nell’incertezza più profonda e in un sistema competitivo che sta fiaccando sempre più i produttori italiani. I costi produttivi in costante aumento (più 4,4 per cento a gennaio, di cui più 6,4 per cento solo per i carburanti) – si evidenzia – hanno portato gli imprenditori del settore al netto rialzo (pari al più 19,1 per cento) dei terreni lasciati a riposo. E la decisione di non seminare è dipesa proprio dal fattore costi, soprattutto visto che oggi i prezzi di mercato, caratterizzati da una crescente volatilità, non riescono a compensare gli oneri da fronteggiare. Tanto più nell’ambito dei cereali, dove -nonostante gli aumenti di listino- il prezzo di grano duro e grano tenero pagato agli agricoltori italiani resta tutt’ora tra i più bassi del mondo.
Da qui l’esigenza di rendere più saldi e produttivi i rapporti di filiera e di lavorare in maniera seria per cercare di raggiungere efficaci accordi interprofessionali che permettano di tutelare e valorizzare la pasta italiana. Sui mercati della Basilicata è da tempo presente grano proveniente soprattutto dall’Ucraina, dal Kazakhistan, dall’Australia, dal Canada e dal Messico, che viene scaricato al porto di Bari, e dalla Turchia, attraverso l’interporto di Foggia, mentre per la pasta prodotta in Italia -sottolinea la Cia Basilicata- vengono impiegati grani duri per il 50-60 per cento di origine estera, con seri problemi di qualità e sanità del prodotto e che sicuramente già adesso non reggono la prova della pasta al dente.
La novità positiva -riferisce Paolo Carbone, della Cia lucana – è la nascita di un’aggregazione economica che creerà nuovo valore aggiunto nella filiera cerealicola nazionale. Un’associazione di imprese che si candida a svolgere un ruolo importante ed innovativo nella gestione della qualità, nella fase dello stoccaggio e della commercializzazione di frumento, orzo e mais.
La Cia lucana in proposito rivendica l’adozione del Piano cerealicolo regionale in sinergia con il Piano nazionale; una nuova disciplina regionale che favorisca l’aggregazione delle produzioni; un programma di insediamento agro-industriale; un progetto per il potenziamento della ricerca e dell’innovazione e di sostegno all’introduzione di varietà anche per scongiurare il rischio paventato dai ricercatori; la definizione del marchio a tutela del pane e della pasta “made in Lucania”.