Con un patrimonio ovicaprino regionale (in base ai dati ISTAT del 2010), di 321.809 capi con una prevalenza degli ovini (263.007 capi) rispetto ai caprini (58.802 capi), che segnano entrambi una variazione percentuale negli ultimi cinque anni di segno negativo ( meno 25,79% per gli ovini e meno 58,08% per i caprini) è necessario destagionalizzarne il consumo per rilanciare un comparto della zootecnia che soffre una crisi dovuta a cause diverse. E’ quanto sostiene la Cia Basilicata ricordando che gli agnelli allevati e venduti in regione (oltre 4 mila allevamenti per gli ovini e 1.800 per i caprini con un numero medio di capi pari a 71 per gli ovini e a 33 per i caprini) nel corso dell’anno, il 40% avviene in prossimità del periodo pasquale; un altro 30% in occasione del Natale e solo il restante 30% nel resto dell’anno. Troppo poco il periodo in cui si consuma la carne di agnello – secondo la Cia -; un settore che paga la crisi dei consumi, ma anche le abitudini alimentari del consumatore-medio che acquista agnello solo a Pasqua e a Natale, oltre alle scriteriate campagne mediatiche di matrice animalista. Di qui l’appello della Cia e dell’Agia (Associazione Giovani Imprenditori Agricoli) ad evitare campagne ideologiche, soprattutto in questo periodo, che invitano i consumatori a non mangiare carne di agnello. Giocando sulla pelle e sull’economia – dice Gabriele Avigliano, giovane allevatore di Vaglio e componente Giunta Nazionale Agia-Cia – di migliaia di aziende zootecniche che sono già alle prese con una crisi di mercato e di consumi e di costi di produzione crescenti che dura da ormai troppi anni. Speculare sulla pelle degli agricoltori, utilizzando il musetto di un agnello non credo sia un gesto “politicamente” corretto. La carne – aggiunge – rimane una proteina fondamentale per la salute e il benessere umano. Oltre a impegnare nel nostro Paese un gran numero di lavoratori in 200 mila allevamenti, generando una ricchezza pari a più di 16 miliardi di euro e contribuendo alla tenuta di vasti territori assieme al tessuto socio-economico connesso. E ancora è bene ricordare che i nostri allevatori rispettano normative rigide per quanto riguarda il benessere animale, sinonimo anche di qualità e sicurezza alimentare, piuttosto il nostro appello è di cercare soprattutto prodotti certificati che garantiscono il consumatore sull’origine e quindi sull’identificazione e rintracciabilità come nel caso dell’agnello delle Dolomiti Lucane. Oppure rivolgersi ad Aziende o piccole macellerie di fiducia. Bene anche la legge regionale per la piccola macellazione aziendale, fortemente sostenuta da CIA in Basilicata, importante per il rilancio di una carne tradizionale e tipica di questo territorio e per i nostri allevatori.
Quanto ai prezzi non sembrano essere remunerativi per gli allevatori lucani: 3,20 euro al kg (peso morto) è il prezzo medio, che per un agnello di 11 kg sono 35 euro: siamo al limite – sottolinea la Cia –, un prezzo minimo dovrebbe essere di 5 euro al kg, per far sì che l’allevamento sia remunerativo. Prezzi in continua discesa, visto che a Pasqua 2013, solo 3 anni fa, 1 kg di agnello veniva venduto dai 3,80 ai 4,40 €/kg. Ad aggravare la sofferenza del settore, anche le importazioni provenienti dall’Est Europa, in primis dalla Romania, da dove arriva il 35% degli agnelli che si consumano da noi, a prezzi stracciati (sotto i 3 euro al kg) che provocano un livellamento delle quotazioni di mercato.