Tra il 2012 e il mese di giugno 2021 a Potenza hanno chiuso 71 esercizi commerciali nel centro storico e 39 in altre aree della città. In controtendenza bar e ristoranti: sono infatti – sempre tra il 2012 e il 2021 – più di 23 quelli aperti nel centro storico e 46 nelle altre zone del capoluogo. Sono questi i dati più significativi dell’indagine dell’Ufficio Studi della Confcommercio sulla Demografia di impresa delle città italiane. Secondo l’analisi “si è verificato un cambiamento del tessuto commerciale all’interno dei centri storici che la pandemia ha contribuito ad enfatizzare”. Sempre a Potenza gli esercizi commerciali al dettaglio in attività nel centro storico erano 437 nel 2012 per scendere agli attuali 366; nel “non centro storico” sono passati da 479 agli attuali 440. Il rapporto tiene conto solo del saldo cessazioni-nuove attività e non del subentro licenze in quanto altrimenti il fenomeno “serrande abbassate” soprattutto nel centro storico sarebbe “numericamente più consistente”. Quanto ai generi merceologici, in aumento gli alimentari sia nel centro storico (da 44 a 48) che in altre aree (da 52 a 54) e le farmacie nel centro storico (da 9 a 19) e non nel centro storico (da 10 a 20) per tendenze che hanno dinamiche diverse. Anche la categoria bar-ristoranti segna una buona performance consolidata negli anni: nel centro storico da 112 (2012) a 132 (2021) e in altre aree da 132 a 171.
L’indagine – la settima di Confcommercio in collaborazione con il Centro Studi delle Camere di Commercio G. Tagliacarne – è utile a delineare il nuovo volto delle attività commerciali nelle città.
“Sui centri storici – ha osservato Mariano Bella, direttore Centro Studi – c’è una prima evidenza meritevole di attenzione: la riduzione del dettaglio fisso è leggermente superiore a quella fuori dai centri storici, ma va considerato che il conteggio sconta una diversa struttura urbanistica tra centri e non centri”.
Infatti, perdere 4 negozi fuori dal centro magari vuole dire che cinque hanno chiuso e uno più grande ha aperto, con un saldo di meno 4. Nel centro storico queste sostituzioni sono tecnicamente molto più difficili; è per questa ragione che, per quanto riguarda il commercio fisso, le riduzioni nei centri pesano di più proprio con riferimento all’eventuale riduzione dei livelli di servizio. Per quanto riguarda il commercio ambulante, prosegue il processo di razionalizzazione di questo comparto, dentro e fuori dai centri storici.
Inoltre, va evidenziata la radicale differenza delle dinamiche tra città del Sud e del Centro-Nord, un primo elemento che può far sospettare di un certo disordine evolutivo nella demografia di queste imprese: va benissimo l’accentuazione della vocazione turistica dell’Italia nell’ultimo decennio, pure tra mille difficoltà.
C’è, però, qualche punto interrogativo sul fatto che il numero di alberghi in senso lato nei centri storici del Mezzogiorno sia cresciuto dell’89,3% contro un più “normale” 34% del Centro-Nord. Stessa cosa per le periferie e stessa cosa per bar e ristoranti: questo significa che potrebbero esserci problemi di qualità dell’offerta.
I numeri del commercio al dettaglio sono discretamente brutti anche durante la pandemia, tenendo conto del congelamento delle dinamiche demografiche. E sono peggiori nei centri-storici piuttosto che nel resto delle aree delle città.
Il presidente provinciale Potenza Confcommercio Fausto De Mare: “La pandemia ha prodotto un profondo cambiamento del tessuto commerciale all’interno dei centri storici specie in quello del capoluogo di regione già interessato in epoca pre-Covid da una crisi di identità commerciale e più in generale di servizi alla città. Non abbiamo mai detto e non diremo mai che le nostre città corrono un rischio di desertificazione; stanno semplicemente cambiando. Infatti ci sono tipologie di negozi che crescono. Sono invece in discesa, soprattutto i consumi tradizionali: cade il numero di negozi di abbigliamento, calzature, libri, giocattoli, mobili, ferramenta. Questi negozi escono dai centri storici, anzi quasi scompaiono, per trasformarsi nell’offerta delle grandi superfici specializzate fuori dalle città, oppure si riaggregano nei centri commerciali. Il declino del commercio ambulante è legato invece alla razionalizzazione dei posteggi proprio nei centri storici anche per combattere le forme di abusivismo nel settore. Il quale conserva, comunque, una posizione di rilievo sia sul piano economico che sul piano della vivibilità della città, continuando a svolgere un ruolo di complementarità rispetto alle altre forme della distribuzione commerciale, soprattutto nelle zone dove tendono a scomparire i negozi in sede fissa, in particolare, quelli che vendono prodotti alimentari. Sono dunque necessari modelli di governance urbana che, con il contributo di chi nella città vive e lavora, guardino al medio-lungo termine e siano realmente capaci di dare risposte concrete all’economia reale e alla vita quotidiana dei cittadini e degli imprenditori italiani. Per tale ragione, la Confederazione sostiene il rafforzamento dei partenariati locali e la definizione di strategie condivise aderenti alle necessità dei luoghi, al fine di contrastare i fenomeni di desertificazione commerciale e valorizzare il tessuto economico in tutte le sue forme e funzioni, incluse quelle di attrazione culturale e turistica, di sostenibilità di quartiere e di innovazione capillare e diffusa, migliorando – al contempo – la qualità urbana e la coesione sociale. Si ritengono, quindi, utili un reale coinvolgimento del territorio e una maggiore integrazione progettuale tra i temi urbani e quelli economici, al fine di usare efficacemente i finanziamenti disponibili, a partire dalle opportunità contenute nel Piano Nazionale di ripresa e resilienza (PNRR) per la rigenerazione urbana ma anche con riferimento alle ulteriori risorse per le città previste dalla nuova Politica di coesione 2021-2027. In sintesi, òa parola d’ordine per Confcommercio è “rigenerazione urbana”.