E’ paradossale prevedere che una singola azienda agricola possa usufruire della denominazione “prodotti della mia azienda”, pur avendo oltre 10 dipendenti e oltre 2 milioni di fatturato, mentre le aziende che si aggregano in forma societaria e superano questi parametri non possano farlo.
A sostenerlo è il coordinamento Agrinsieme tra Cia, Confagricoltura e Alleanza delle cooperative agroalimentari (che a sua volta comprende Fedagri-Confcooperative, Legacoop agroalimentare e Agci-Agrita) che ha inviato lettere all’Assessore regionale all’Agricoltura Nicola Benedetto e a tutti gli altri assessori regionali all’Agricoltura e ai dirigenti degli uffici competenti del Ministero Politiche Agricole.
Nel sottolineare che a livello comunitario sono in discussione alcuni importanti provvedimenti riguardanti l’applicazione del cosiddetto pacchetto qualità (Regolamento UE n. 1151/2012) tra cui l’utilizzo dell’indicazione facoltativa di qualità “prodotto della mia azienda”, il coordinamento Agrinsieme esprime “alcune forti perplessità relative a specifiche disposizioni”. L’atto delegato – si precisa – impone che l’indicazione sia riservata esclusivamente per descrivere i prodotti venduti ai consumatori finali, in merito ai quali : tutte le fasi di produzione hanno luogo nella stessa azienda; le materie prime sono prodotte nell’azienda; l’agricoltore è proprietario del prodotto fino al momento della sua vendita e il numero di venditori intermediari è limitato a uno.
Queste previsioni, seppur migliorabili, sono coerenti con l’impostazione di una norma che punta a definire una denominazione da applicare ad un prodotto venduto direttamente al consumatore. Tuttavia, ciò che desta preoccupazione è invece contenuto nell’articolo che riguarda le “associazioni dei produttori”.
È previsto, infatti, che le “associazioni dei produttori” non possono utilizzare la denominazione “prodotti della mia azienda” qualora superino i 10 dipendenti ed i 2 milioni di euro di fatturato. Una disposizione incomprensibile e senza alcun fondamento né logico né giuridico. Non si riesce a comprendere come una denominazione che descrive un prodotto e/o una modalità di vendita possa essere collegata in maniera discriminatoria ad un soggetto specifico.
Questo non solo è contrario ad ogni logica politica di incentivazione dell’aggregazione dell’offerta ma – rileva il presidente della Cia lucana Donato Distefano sollecitando un’iniziativa del Coordinamento degli Assessori regionali all’Agricoltura – è anche contrario alle politiche per la tutela e lo sviluppo del reddito degli agricoltori. Se infatti attraverso l’utilizzo di questa denominazione una associazione dovesse riuscire a migliorare i risultati sul mercato e ad elevare il proprio fatturato oltre i due milioni di euro, dovrebbe rinunciare immediatamente al suo utilizzo. E’ il caso di evidenziare che il termine “associazione di produttori” non corrisponde ad alcuna forma aggregata riscontrabile nella normativa comunitaria (nella quale sono definiti soltanto i “gruppi di produttori” e le “organizzazioni dei produttori”).
Lug 04