Si celebra il 12 maggio la Giornata internazionale degli infermieri, ricorrenza in onore di Florence Nightingale, considerata la madre dell’infermieristica moderna, una professione che la pandemia ha riportato al centro dell’attenzione ma a caro prezzo, considerando che gli infermieri sono la categoria maggiormente contagiata da Sars-Cov-2 per l’altissimo livello di prossimità con i malati. Una professione che, nel nostro paese, sconta una carenza di circa 150mila unità di personale (per arrivare alla media Ocse) e che, solo per perseguire gli obiettivi del Pnrr, avrebbe necessità di almeno 20 mila unità. Se consideriamo che entro il 2026 andranno in pensione 20 mila infermieri ogni anno, solo nella sanità pubblica, abbiamo contezza di come, una professione così importante per garantire il diritto alla salute dei cittadini, sia in grave sofferenza, mentre i percorsi di laurea riescono a formare attualmente appena 16.000 infermieri, numero insufficiente anche solo a coprire il vuoto che lasciano coloro che se ne vanno. Senza contare che, sempre più spesso, in molti fuggono dalla professione a causa di condizioni di lavoro divenute insostenibili. A ciò si aggiunge che in Italia 500 strutture sanitarie su 1.000 sono in mano al privato, un privato che proprio recentemente ha superato il pubblico per numero di prestazioni in 16 regioni su 20. La Basilicata ancora vede una forte preminenza della sanità pubblica, ma le liste di attesa che si allungano e la difficoltà di curarsi di molti lucani spinge anche la nostra regione a un servirsi sempre di più del privato, mentre tantissimi lucani si rivolgono fuori regione, con una mobilità passiva che segna la cifra record di 64 milioni. A ciò va aggiunto il dilagante fenomeno della rinuncia alle cure che, secondo l’ultimo rapporto Cerved, ha riguardato oltre la metà delle famiglie per problemi economici, indisponibilità del servizio o inadeguatezza dell’offerta. Contemporaneamente la spesa delle famiglie per la salute, l’assistenza agli anziani e l’istruzione è aumentata. Un vero paradosso. Una situazione allarmante che non sembra, tuttavia, preoccupare il Governo ma anche la stessa Regione Basilicata, che non si sforzano di individuare strategie per risolvere il problema. La Basilicata, aggiungendo criticità a criticità, sta tra l’altro procedendo con grande lentezza nella stabilizzazione del personale, rischiando di perdere unità di personale, soprattutto infermieristico, ormai formato, soprattutto nel delicato settore dell’emergenza urgenza, che trova fuori dai confini regionali risposte di stabilità che qui, in molti casi, restano un miraggio.
Un ulteriore allarme, se ce ne fosse bisogno, ci viene anche dalla volontà del governo di creare nuove figure alternative all’infermiere, figure delle quali si discute in questi mesi a livello centrale.
Il Fondo sanitario nazionale è sottofinanziato, i tetti di spesa per l’assunzione del personale rimangono e la Regione, dal canto suo, non finanzia i fondi per i lavoratori. Nel frattempo si fa lavorare di più chi è in servizio, con tutte le conseguenze di stress da lavoro correlato.
Le soluzioni? Ci sarebbero e la Fp Cgil nazionale lo propone da anni: bisogna abolire il numero chiuso nelle facoltà di infermieristica, almeno temporaneamente, supportando il sistema universitario. Ricordiamo che a fronte di 26.000 domande arrivate quest’anno, solo 18.000 sono i posti disponibili. Bisogna aiutare a sostenere i costi per la frequentazione dei corsi di laurea. Bisogna promuovere il settore sanitario e favorire il reclutamento di giovani, come accade in molti Paesi europei. Bisogna valorizzare le competenze e sviluppare infrastrutture di sostegno per facilitare l’equilibrio tra vita professionale e vita privata di chi questo mestiere già lo fa. E lo fa con passione e sacrificio. Bisogna rinnovare tutti i contratti scaduti, nel pubblico e nel privato, adeguando la parte economica. Stesso lavoro, stesso salario. Bisogna individuare un numero adeguato di personale, non basato sulle disponibilità economiche ma sulle reali necessità assistenziali. Bisogna aggiornare il personale per garantire una migliore qualità del servizio. E favorire le opportunità di carriera. Infine, bisogna garantire un ambiente di lavoro sicuro, dal punto di vista fisico e psicologico.
Ormai siamo a un punto di non ritorno: il sistema sociosanitario, così com’è, non riesce più a garantire un servizio gratuito ed universalistico e ciò mette a rischio il diritto alla salute sancito dalla costituzione. Se non si affronta adesso il problema, domani potrebbe essere troppo tardi.