Nel 2013 crollano le superfici a grano duro al Centro Italia, mentre si mantengono pressoché stabili nel Mezzogiorno. In Basilicata, dove la superficie complessiva (dati Ismea) è di 103mila ettari, che rappresenta circa il 10% di quella complessiva italiana, si è comunque già registrata una riduzione del 12% di superficie tra il 2011 e il 2012 con un calo di produzione del 10% (la produzione complessiva è di 310mila tonnellate) e una resa (nella media nazionale) di 3 tonnellate ad ettaro. Lo afferma la Cia-Confederazione italiana agricoltori, che ha effettuato una prima indagine sull’andamento della nuova campagna di semina.
Una tendenza che – riferisce la Cia – si preannuncia positiva sul piano qualitativo, grazie alle buone condizioni climatiche durante la fase di semina e alla resa che da noi è aumentata del 2,2%.
Nelle sempre più complesse problematiche che riguardano il comparto cerealicolo lucano ed in particolare della provincia di Matera, i costi aziendali in costante aumento – commenta Paolo Carbone, responsabile dell’Ufficio Economico della Cia – hanno portato gli imprenditori del settore a scelte drastiche: come evidenzia l’Istat, infatti, nelle intenzioni di semina c’è stato un netto rialzo (pari al più 19,1 per cento) dei terreni lasciati a riposo. E la decisione di non seminare è dipesa proprio dal fattore costi, soprattutto visto che oggi i prezzi di mercato, caratterizzati da una crescente volatilità, non riescono a compensare gli oneri da fronteggiare.
La Cia lucana in proposito rivendica l’adozione del Piano cerealicolo regionale in sinergia con il Piano nazionale; una nuova disciplina regionale che favorisca l’aggregazione delle produzioni; un programma di insediamento agro-industriale; un progetto per il potenziamento della ricerca e dell’innovazione e di sostegno all’introduzione di varietà; la piena attuazione dei progetti del marchio a tutela del pane e della pasta “made in Lucania”.
Un settore, quindi, in grave affanno che ha necessità di nuove politiche che diano reali sostegni alle imprese agricole che non possono continuare ad operare nell’incertezza più profonda e in un sistema competitivo che sta fiaccando sempre più i produttori italiani. Da qui l’esigenza di rendere più saldi e produttivi i rapporti di filiera e di lavorare in maniera seria per cercare di raggiungere efficaci accordi interprofessionali che permettano di tutelare e valorizzare il “made in Italy”.
Fra un po’ finisce l’integrazione e gli agricoltori potranno stare definitivamente a casa a grattarsi (o a rompere le scatole con i trattori in piazza).