“Il diritto al lavoro è il fulcro dell’emancipazione. Quello che è accaduto nello stabilimento Sata di Melfi tutt’altro”. E’ quanto sostenuto da Angela Blasi, presidente della Commissione regionale pari opportunità, e dall’on.Giovanna Martelli che segue le problematiche relative alle politiche di genere, all’affermazione dei diritti civili, al contrasto alle discriminazioni e la tratta degli esseri umani nell’ambito del Dipartimento per le Pari Opportunità della Presidenza del Consiglio.
“La richiesta delle donne lavoratrici – affermano Martelli e Blasi – non può essere ridicolizzata, tanto meno ignorata. Chiedere che si cambi il colore della tuta da lavoro non è una richiesta vezzosa, non si vuole seguire la moda, ma semplicemente una richiesta che nasce dalla necessità di sentirsi a proprio agio per poter svolgere al meglio il proprio lavoro.
Certo noi donne non ci offenderemmo affatto se ci fosse chiesto il nostro colore preferito, daremmo in ogni caso una buona risposta, siamo pratiche e multi tasking e saremmo capaci di mettere insieme vezzo e praticità”.
“Le donne di oggi, ogni giorno – continuano Martelli e Blasi – accettano una sfida nuova, combattono per conciliare i tempi di vita – lavoro, combattono per diventare ed essere madri in una società che non sempre le aiuta, contribuiscono allo sviluppo economico e sociale e di certo non meritano una risposta alla Mariantonietta. 400 firme spontanee, raccolte in poche ore – concludono – sono il segno della capacità delle donne di non accettare le umiliazioni, ma di cercare soluzioni”.
Ma cosa è successo alla Sata di Melfi? Questo articolo di Repubblica spiega perchè è scoppiato il caso delle tute bianche nello stabilmento lucano della FCA.
La scelta, presa quattro anni fa dal management della Fca, rischia adesso di scatenare l’ennesima vertenza sindacale e immobilizzare la produzione. L’opposizione al “pigiamo” non è estetica. Ma le donne lamentano che i pantaloni si macchiano spesso a causa del ciclo mestruale.
“Come membro del coordinamento donne del sindacato – spiega Pina Imbrenda, delegata Fiom nello stabilimento, a Repubblica – ho ascoltato le lamentele delle mie colleghe e mi sono data da fare. In fabbrica accadono troppi episodi incresciosi del genere, in ogni reparto. Una situazione imbarazzante. Quando si verifica non sappiamo dove andare, visto che non possiamo tornare a casa. Abbiamo 10 minuti di tempo di pausa, ma non ce la facciamo mica ad andare in bagno tutte le volte, dove si accumula la coda delle colleghe”. Il sindacato avrebbe raccolto almeno una cinquantina di denunce di lavoratrici che si sono barricate in bagno con i pantaloni della tuta macchiati di sangue perché si vergognavano a tornare a lavorare sporche. “Noi facciamo i metalmeccanici, stiamo tutto il giorno in posizioni assurde – spiega la Imbrenda – perché lavoriamo dentro le macchine, facciamo un lavoro con il corpo piegato dentro le scocche. Diventa facile sporcarsi quando hai il ciclo mestruale. E così scatta un senso di umiliazione. Tutti in fabbrica lo vengono a sapere, qualcuno dei colleghi maschi fa anche il commento stupido tra le auto in fila. Tutto per colpa del pantalone chiaro. Per questo abbiamo deciso di agire cominciando a raccogliere firme per chiedere di cambiare il colore della divisa. Basta, non ce la facciamo più”.
La delegata della Fiom ha iniziato una raccolta firme. Nel giro di una decina di giorni ne ha già raccolte 400. E le ha subito girate alla dirigenza della Fca di Melfi. La soluzione dell’azienda è stata al tempo stesso semplice e pragmatica. Da gennaio le operaie avranno a disposizione le culotte da indossare sotto la tuta. Una scelta che, però, non è piaciuta al sindacato. “All’inizio pensavamo ad uno scherzo – racconta una operaia a Repubblica – nessuno poteva immaginare che si potesse arrivare a tanto. L’ipotesi di sopperire a questo problema, consegnandoci un pannolino, sembra aggiungere la beffa all’umiliazione”.
La scelta, presa quattro anni fa dal management della Fca, rischia adesso di scatenare l’ennesima vertenza sindacale e immobilizzare la produzione. L’opposizione al “pigiamo” non è estetica. Ma le donne lamentano che i pantaloni si macchiano spesso a causa del ciclo mestruale.
“Come membro del coordinamento donne del sindacato – spiega Pina Imbrenda, delegata Fiom nello stabilimento, a Repubblica – ho ascoltato le lamentele delle mie colleghe e mi sono data da fare. In fabbrica accadono troppi episodi incresciosi del genere, in ogni reparto. Una situazione imbarazzante. Quando si verifica non sappiamo dove andare, visto che non possiamo tornare a casa. Abbiamo 10 minuti di tempo di pausa, ma non ce la facciamo mica ad andare in bagno tutte le volte, dove si accumula la coda delle colleghe”. Il sindacato avrebbe raccolto almeno una cinquantina di denunce di lavoratrici che si sono barricate in bagno con i pantaloni della tuta macchiati di sangue perché si vergognavano a tornare a lavorare sporche. “Noi facciamo i metalmeccanici, stiamo tutto il giorno in posizioni assurde – spiega la Imbrenda – perché lavoriamo dentro le macchine, facciamo un lavoro con il corpo piegato dentro le scocche. Diventa facile sporcarsi quando hai il ciclo mestruale. E così scatta un senso di umiliazione. Tutti in fabbrica lo vengono a sapere, qualcuno dei colleghi maschi fa anche il commento stupido tra le auto in fila. Tutto per colpa del pantalone chiaro. Per questo abbiamo deciso di agire cominciando a raccogliere firme per chiedere di cambiare il colore della divisa. Basta, non ce la facciamo più”.
La delegata della Fiom ha iniziato una raccolta firme. Nel giro di una decina di giorni ne ha già raccolte 400. E le ha subito girate alla dirigenza della Fca di Melfi. La soluzione dell’azienda è stata al tempo stesso semplice e pragmatica. Da gennaio le operaie avranno a disposizione le culotte da indossare sotto la tuta. Una scelta che, però, non è piaciuta al sindacato. “All’inizio pensavamo ad uno scherzo – racconta una operaia a Repubblica – nessuno poteva immaginare che si potesse arrivare a tanto. L’ipotesi di sopperire a questo problema, consegnandoci un pannolino, sembra aggiungere la beffa all’umiliazione”.
Lavoratrici contro le tute bianche alla Sata di Melfi, nota Maria Murante, Coordinatrice regionale SeL Basilicata.
“Il personale è politico”. Con questo slogan il movimento femminista negli anni ’70 rivendicava il ruolo della donna nella politica e società italiana, chiedendo a gran voce la parità di genere. Le doglie, le mestruazioni, la vagina – l’universo femminile – dovevano avere diritto di cittadinanza nel dibattito e nella sfera pubblica.
Questo tema ritorna oggi tra le lavoratrici della Fiat-Sata di Melfi, le tute chiare della Fiat che mortificano il corpo e la sfera intima delle donne lavoratrici.
Ma il tema delle “tute chiare” rischia di essere beffeggiato e relegato a mero dettaglio se non si inserisce in una discussione più articolata e complessiva. Perché il mestruo femminile e il rispetto per la sfera intima delle lavoratrici è solo l’ennesimo tassello di un reiterato sistema di denigrazione dei diritti e della dignità delle lavoratrici e dei lavoratori nello stabilimento di Melfi. Perché se ci soffermassimo solo ed esclusivamente sulla vicenda – di per sé deplorevole – del rispetto del corpo femminile, rischieremmo di derubricare dal dibattito pubblico l’attacco feroce che da anni si perpetua a danno della dignità delle operaie e degli operai in quello stabilimento. Rischieremmo di trincerarci dietro una sfumatura che nasconde ben e più seri problemi che da mesi, inascoltati, denunciamo come Sinistra Ecologia Libertà di Basilicata. Rischieremmo di mettere in secondo piano il fatto che le assunzioni annunciate non riassorbono neppure, ad esempio, i mancati rinnovi dei contratti interinali di alcuni anni fa. Che le condizioni lavorative e la compressione dei diritti rischiano di essere proibitive per un lavoro che possa dirsi tale. Che il ricatto occupazionale viene utilizzato come strumento di livellamento verso il basso non solo delle condizioni materiali, bensì anche morali, di quante e quanti hanno la fortuna di avere un posto di lavoro e che oggi a Melfi i turni sono proibitivi ma la assenza di diritti pone i giovani lavoratori di fronte a un costante e progressivo ricatto. Per di più, essi continuano a essere considerati come privilegiati da parte chi non lavora, secondo la più classica lotta degli ultimi contro i penultimi. Che il diritto ad un lavoro dignitoso che sappia compensare e rispondere alle esigenze dei ritmi di vita e della stessa natura sociale dell’uomo vengono costantemente messi a rischio da una turnazione selvaggia e da carichi di lavoro insostenibili che di fatto minano la dimensione umana delle lavoratrici e dei lavoratori. Che la riduzione della pausa all’interno dei singoli turni non permette, di fatto, a quelle donne e a quegli uomini di poter sopperire alle minime esigenze corporali.
Perché siamo convinti che il solo modo per riorganizzare la società, per creare massa critica e coscienza di classe, non può che iniziare dal mondo del lavoro e della riapertura di un conflitto che oggi si vorrebbe negare e neutralizzare, in cui il lavoro da strumento di liberazione sta diventando arma di ricatto e di moderna schiavitù.