Riportiamo di seguito la lettera aperta di Sabrina Mutino, funzionario archeologo in servizio alla Soprintendenza Archeologica di Basilicata. Di seguito la nota integrale.
L’importanza di chiamarsi archeologo … e di averne le competenze.
L’archeologia è prima di tutto una passione. Tutti lo sanno. Ma non sanno che il romanticismo, che da sempre avvolge la materia, è stato la causa di tanti mali, per gli archeologi, per l’archeologia e per quello che oggi con l’archeologia viene riconosciuto come un tutt’uno: il paesaggio.
Tra le poche categorie professionali in Italia a non aver mai avuto un albo, quando, il 20 maggio 2019, con il Decreto n. 244 del MiBACT è stato pubblicato il quadro delle competenze richieste per esercitare questo lavoro, era da circa un secolo che gli archeologi stavano aspettando.
Eppure, la definizione chiara dei requisiti necessari ad operare sul patrimonio archeologico di una nazione è una garanzia fondamentale per tutti i cittadini a cui appartiene: italiani, ma diciamo pure europei.
Già la Convenzione Europea de La Valletta del 1992 sulla “Protezione del patrimonio archeologico” indicava, per evitarne la distruzione, il rispetto di rigorosi standard di qualità per gli interventi. Non solo, il documento introduceva un concetto fondamentale per la sua conservazione: la necessità di conciliare e articolare i bisogni dell’archeologia e quelli della pianificazione territoriale.
E questo non perché sviluppo ed archeologia siano necessariamente in contrasto, tutt’altro. Il contrasto, semmai, è tra il voler ignorare il potenziale archeologico di un territorio e il riuscire a pianificarne il benché minimo sviluppo. Ma su questo tema si gioca la partita per gli archeologi del XXI secolo, per poter essere chiamati tali. La sfida consiste nel far riconoscere nel patrimonio archeologico una risorsa per il territorio, educare le comunità al suo valore e offrirne così una conoscenza tale, che risulti utile alla pianificazione condivisa. Imperativi per l’archeologo sono: comunicare, spiegare, coinvolgere, condividere e partecipare. La chiamano anche archeologia pubblica sulla falsariga di un’altra Convenzione Europea, quella di Faro del 2006, che raccomanda che le risorse culturali siano aperte e fruibili, comprese e tramandate, come conseguenza di una scelta collettiva e responsabile. Ma non viene mai detto che tutti possono fare gli archeologi senza esserlo, senza aver studiato e lavorato e raggiunto competenze e ruoli in questo delicatissimo settore. Anzi, per quel che attiene alla tutela e salvaguardia del patrimonio archeologico, il principio informatore rimane il possesso delle competenze ed il rispetto degli elevati standard di qualità nella realizzazione degli interventi. E la necessità di saper spiegare ciò che si fà.
Ma veniamo al rapporto di amore-odio tra archeologia e paesaggio. Il paesaggio ha insegnato all’archeologia l’importanza fondamentale della relazione tra le cose, per coglierne il significato nel contesto, e l’archeologia ha ricambiato rivelando al paesaggio la sua connotazione storica, facendogliene scoprire la dimensione culturale. Questo dialogo affiatato e proficuo è stato però incrinato dalla burocrazia. Se la ricerca sul campo è intesa a coniugare la geografia con la storia dei luoghi, nella prassi burocratica la ‘questione paesaggistica’ è divenuto l’ultimo tritacarne per l’archeologia, e per chi la pratica.
Riepilogando. Per la salvaguardia del patrimonio archeologico è necessario coniugare le esigenze di tutela e quelle di sviluppo territoriale. Questo implica operare delle scelte, quasi mai facili, ma che devono essere supportate da anni di studio e di esperienza sul campo, dal confronto con i colleghi e con altri professionisti del settore, e che, in relazione al patrimonio archeologico solo un archeologo può responsabilmente fare.
Ciò significa, nell’ambito di decisioni che tengono conto di una rosa di interessi ben più ampia, ragionare sulla possibilità di sacrificare qualcosa di questo patrimonio, conservandone i cosiddetti “testimoni”. Significa scegliere cosa, ma anche come, coinvolgendo gli attori del territorio ed armonizzando con le linee guida della politica, ma alla fine assumendosene tutte le responsabilità, rimanendo sostanzialmente dei tecnici in un ambito prettamente amministrativo.
Le scelte, come è naturale, scontentano sempre qualcuno, e spesso gli opinionisti definiranno tutto questo ‘distruzione’ o al contrario ‘immobilismo’ ed urleranno allo scandalo. Ma, appunto, si tratta legittimamente di opinionisti, non sono archeologi, quasi mai possiedono tutti gli strumenti necessari -e sono davvero tanti!- ad effettuare una valutazione tecnica, sicuramente non ne hanno il compito, e forse dovrebbero cercare il confronto, prima di esprimere impietosi giudizi mediatici. Peraltro, questi ultimi fanno male all’archeologia, perché ne allontanano sempre più quelle comunità, che invece a fatica si cerca di coinvolgere ed educare al valore del proprio patrimonio.
Fare scelte impopolari può significare, ad esempio, far passare un tubo moderno al di sotto, o secante un’antica struttura, a volte smontare e rimontare un muro antico, scavare una necropoli raggiungendo lo strato di terreno “sterile” e bonificare così l’area dal deposito archeologico, rendendola infine adatta alle lavorazioni moderne. All’opposto scelte altrettanto impopolari risultano il riconoscimento della unicità di un sito e la conseguente decisione di preservarlo, bocciando un progetto o determinando un esproprio.
Il vero problema è che raccontare apertamente e con coraggio le scelte fatte agli unici portatori di interessi autentici, ovvero le comunità del territorio, è spesso -per l’archeologo di mestiere- impresa quasi impossibile. Le intenzioni di conservare o sacrificare sono infatti oggetto di strumentalizzazione prima ancora di essere trasformate in scelte.
C’è chi, per principio, condanna il fatto stesso di aver scoperto una testimonianza archeologica nell’ambito delle indagini per la realizzazione di un’opera moderna, e cerca di dimostrare che -sì qualcosa si sarà pure salvato-, ma in realtà quello che di veramente importante c’era “al di sotto” (sic!) è stato distrutto ed occultato, non si capisce poi come e perché…chi vagheggia di un immaginario paesaggio ottocentesco, immobile, dove l’archeologia, prima dell’arrivo degli escavatori, era romanticamente preservata, dimenticando l’opera distruttrice dei mezzi agricoli pesanti, la cui forza nulla ha da invidiare agli escavatori…infine chi urla contro la ricostruzione culturale dei nostri paesaggi, senza capire che dalla terra viene la nostra storia e non è questione di centimetri quadrati o ettari, è solo questione di scelte…