Biagio Matera, studente materano del corso di Laurea Magistrale in Biotecnologie genomiche, molecolari ed industriali dell’Università di Parma, insieme ad altri colleghi (Davide Ampollini, Alice Annuiti, Alessia Martinelli, Gregorio Monica e Lara Monica) e supervisionato dai docenti Daniele del Rio e Letizia Bresciani, hanno inviato una nota per stimolare una riflessione critica sula qualità delle fonti d’informazione e sull’importanza degli alimenti e della nutrizione ai tempi del Covid-19.
Di seguito la nota integrale.
Siamo tutti nutrizionisti
Già in condizioni “normali” l’argomento “alimentazione e nutrizione” è gettonatissimo e sulla bocca di tutti. Esperti e non. I libri sulle diete sono sempre i più venduti nelle librerie, e anche molti bravi ricercatori e professori, che per anni si sono occupati scientificamente di nutrizione… finiscono per scivolare nella tentazione di guadagno, e forse anche della notorietà mediatica, pubblicando testi di dubbio valore scientifico. Non parliamo poi della rete, dove sedicenti esperti di nutrizione e salute impazzano e hanno seguiti degni dei più convincenti culti religiosi. Ora però non siamo più in condizioni “normali”, perché è in corso la pandemia. Centinaia di migliaia di persone si trovano a lottare contro questa malattia che sta colpendo tutto il mondo. Come spesso accade in tempi incerti, le persone si affidano agli esperti e, nel nostro tempo, gli esperti usano i social media per rendere più capillare la penetrazione delle informazioni. Purtroppo, il filtro “giornalistico”, che ci garantiva un minimo di selezione degli autori fino a qualche anno fa, è ora del tutto scomparso e questo ha, più o meno, reso tutti potenziali esperti. A questo si aggiunge un’aggravante: ogni “esperto” ha ora uno strumento di comunicazione con una capacità di penetrazione della popolazione senza precedenti. Così, in tempi di crisi, il web, con le sue caratteristiche di velocità, capillarità, ma volte anche superficialità, diventa la proverbiale “arma a doppio taglio”, un luogo virtuale dove il cittadino può ottenere informazioni fondamentali per la propria sopravvivenza e al contempo consigli e suggerimenti privi di qualunque fondamento scientifico. In tanti ci hanno raccontato di alimenti che “rinforzano il nostro sistema immunitario”, tra i quali rientrano integratori alimentari o miracolosi superfood. Se, anche in tempi di relativa normalità, a potenti “superfrutti”, come ad esempio avocado, mirtilli, bacche di goji, si attribuivano doti salutistiche e benefiche eccezionali, in piena pandemia, quando il nostro organismo si trova a dover “alzare le difese” contro il virus, le potenzialità di questi superfood sono state notevolmente ingigantite. Intendiamoci, è vero che questi cosiddetti “superfrutti” sono ricchi di fibra, vitamine e composti fitochimici che potrebbero risultare benefici per la salute, ma le stesse caratteristiche nutrizionali valgono praticamente per tutti gli altri tipi di frutta non sufficientemente esotica da meritare il titolo di “super”. Se poi consideriamo il mondo degli integratori, che ancora vive in un’area protetta dalle severe normative europee, dal 20 febbraio scorso ad oggi in tanti si sono sperticati nel convincerci di come la supplementazione di vitamine e minerali fosse fondamentale per stimolare le difese immunitarie e, in alcuni casi, ci siamo persino sentiti raccontare che potesse essere utile introdurre integratori per combattere il contagio. Tra tutte le bufale del momento, la più citata è probabilmente quella sulla vitamina C, che ridurrebbe il rischio di contagio in dosi pari a 1-2 g/die. Ora, non rinunciate mai alla vostra dose di vitamina C, la cui assunzione giornaliera raccomandata per la popolazione (dettata dai LARN, il Livelli di Assunzione di Riferimento di energia e Nutrienti per la popolazione Italiana) è di circa 100 mg. La potete trovare abbondante in frutta e verdura (tutta o quasi!) e sicuramente contribuisce, così come tutte le vitamine, al vostro stato di salute. Però al coronavirus, se anche ne consumate 20 volte tanto (come da bufala del momento), davvero non interessa… quindi non spendete soldi per integrarne il consumo.
Si legge anche che mangiare aglio possa essere utile a combattere questa infezione, probabilmente sulla base di una serie di credenze popolari tradizionali legate alle proprietà antimicrobiche di questo vegetale. Ecco, diciamo che in questo caso potremmo considerare l’aglio come un potente stimolante del distanziamento sociale e, per questo motivo, fortemente raccomandabile e in linea con le raccomandazioni generali. Chi ha, infatti, voglia di avvicinarsi a meno di un metro da una persona che ha mangiato aglio crudo? Questo resta, su base scientifica, l’unico effetto protettivo che l’aglio può avere nei confronti dell’infezione virale. Infine, come indicazione generale, diffidate sempre da chi vi racconta che un alimento, super o non super, o un nutriente, come una vitamina, possa aiutarvi a non contrarre il coronavirus, o a farvi trovare preparati all’incontro col coronavirus (o qualunque altro agente infettivo), o in generale a mantenervi in salute. L’unico messaggio sensato è che la dieta, nel suo complesso, definisce il vostro stato di salute e, di conseguenza, la vostra attitudine ad affrontare questo periodo più o meno in sicurezza, così come riportano gli enti competenti (come l’Organizzazione Mondiale della Sanità o il Ministero della Salute). Qualche mese fa, tra l’altro, è stata pubblicata da parte del CREA – Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e l’analisi dell’Economia Agraria l’ultima revisione delle Linee Guida per una Sana Alimentazione, un documento rivolto a tutta la popolazione in cui sono raggruppate le raccomandazioni da seguire per una sana alimentazione e un corretto stile di vita, formulate al fine di migliorare o preservare lo stato di salute e il benessere. La pubblicazione risulta ovviamente completamente scollegata dalla situazione attuale, ma le indicazioni riportate in questo documento fondamentale sono esattamente quelle che devono essere messe in pratica anche in ottica di mantenimento della salute durante questa pandemia, che, tra gli infiniti effetti negativi che sta generando, ci costringe ad una vita troppo sedentaria.
Le tecnologie alimentari ai tempi del virus
Tempi duri, quindi, quelli in cui ci troviamo. Siamo già a più di un mese di lockdown e, probabilmente, passerà ancora parecchio tempo prima di poter tornare alle nostre vecchie abitudini. Siamo stati testimoni di assalti ai supermarket, dove gli scaffali, svuotati dalla follia collettiva, venivano prontamente riforniti grazie allo sforzo degli addetti del settore. Ma quali erano i prodotti presi principalmente di mira dall’orda di consumatori fuorviati da una comunicazione forse troppo allarmistica sullo stato delle risorse? Spesso quelli con scadenze più lunghe (perché non si sa mai per quanto tempo staremo senza accesso al cibo!), oppure i prodotti che non hanno bisogno di particolari trattamenti domestici per essere consumati (perché non si sa mai se avremo ancora accesso al microonde o al fornello!). In buona sostanza, quindi, ci si è accaniti su molti di quegli alimenti che sono frutto delle tecnologie alimentari moderne, che adesso sembrano la nostra unica salvezza, ma che fino a ieri (e forse anche di nuovo da domani) venivano (e verranno?) demonizzati perché “ultra-processati”, spesso dagli stessi esperti di nutrizione che li contrapponevano ai loro decantati superfrutti. Da qualche anno qualcuno ha pensato bene di proporre questa idea di “alimento ultraprocessato” (ultraprocessedfood), indicando con questo aggettivo qualsiasi alimento contenente numerosi ingredienti e prodotto a mezzo di più di un singolo processo tecnologico. Un po’ di ricerca, francamente non proprio condotta in maniera ineccepibile, ha tentato di dimostrare come il consumo di questi prodotti sia associato ad un’aumentata mortalità. Ora come la mettiamo? Sia pur vero che ci siamo trovati catapultati in una situazione di emergenza inaspettata, dove l’istinto di sopravvivenza, per un momento, ha preso il sopravvento, ma siamo poi così sicuri che questi alimenti siano la causa di tutti i nostri mali? Se ci pensate bene, tutti noi consumiamo abitualmente alimenti che rientrano in questa categoria e in fondo non c’è nulla di male. Il ragionamento riportato poche righe più indietro, relativo ai superfrutti resta valido anche quando applicato ad alimenti meno salutari. Il messaggio migliore, in nutrizione, è che conta la dieta nel suo complesso e non l’alimento individuale. Certo, non si può e non si deve costruire la propria dieta solamente su alimenti ultra-processati, ma, quelli di noi che possono permetterselo (e su questo torneremo tra qualche riga), di sicuro non entrano in un supermercato e ne escono con le borse piene esclusivamente di alimenti di questa categoria. Non solo superfrutti. Non solo ultraprocessedfoods. Un’aurea via di mezzo, che è poi quella raccontata nelle linee guida italiane citate poc’anzi e caldeggiata da ogni nutrizionista che abbia un po’ di sale in zucca e un po’ di buon senso. Non dimentichiamo, poi, che è grazie alle moderne innovazioni tecnologiche se possiamo acquistare prodotti alimentari che siano sicuri (che non ci fanno ammalare o intossicare per qualche contaminazione) e, come ricordato, che possano rimanere nelle nostre credenze per più di qualche giorno. La varietà di alimenti che oggi sono a disposizione della maggior parte dei consumatori è frutto dell’avanzamento delle tecnologie alimentari, così come è merito della ricerca e della tecnologia se questi alimenti sicuri e durevoli mantengono fino alla scadenza la loro qualità nutrizionale. Ricordiamoci che se oggi la maggior parte di noi fortunati cittadini resiste alla terribile situazione che stiamo attraversando, offrendo a questo subdolo virus un organismo robusto e ben nutrito (a volte anche troppo!) lo dobbiamo, tra le altre cose, proprio alle tecnologie alimentari che ci hanno regalato la possibilità di scegliere ogni giorno cosa mangiare e che ci permettono di avere le dispense piene anche in tempi di lockdown. Oltretutto, visto che le attività che producono alimenti hanno continuato e continueranno a lavorare anche durante questo periodo di distanziamento sociale, non c’è alcun bisogno di accumulare cibo che poi si dovrà buttare perché scaduto. Limitiamoci al necessario.
Don’tadd to the noise
Ma allora come si spiega il fatto che tutti ancora stiano discutendo della legittimità di certe informazioni? Tipo che siamo vittima degli alimenti ultraprocessati, o che la vitamina C cura o previene le infezioni da SARS-CoV-2, o addirittura che ci troviamo davanti ad un virus geneticamente modificato in laboratorio? Siamo esposti sui social a queste baggianate da sempre, ma in questi giorni, in cui la vita di tutti si è fermata, è come se ci facessimo più caso. Forse perché il lockdown ci ha concesso un po’ più di tempo libero… e allora sfruttiamolo per leggere e informarci, ma selezionando attentamente e consapevolmente cosa stiamo leggendo, proprio perché questo “tempo rallentato” ce lo consente. O forse è come se tutti ci sentissimo più giustificati a credere a qualunque post, a qualunque tweet e a qualunque news. Le fonti sono incerte e i termini scientifici compaiono in testi che di scientifico hanno ben poco, ma condividiamo lo stesso qualunque notizia ci capiti per le mani e ci sembra quasi doveroso diffonderla, con un semplice “click”. Forse, se ad un primo check la dichiarazione ci sembra sostanzialmente credibile, e se pensiamo che il fatto che tutti ne prendano atto sia utile, ci convinciamo che divulgarla possa renderci parte attiva in questa battaglia. Peccato che questo piccolo gesto, questa leggerezza, possa portare a risultati opposti rispetto alle nostre buone intenzioni, vanificando gli sforzi di chi, invece, la battaglia la sta conducendo in prima linea. Oltretutto, così come alcuni di noi sono evidentemente più fortunati di chi ha vissuto, nei secoli passati, momenti di grande crisi (siamo mediamente più ricchi e abbiamo, come ricordato, accesso a provviste sicure e durevoli), dovremmo essere, almeno in teoria, anche molto più educati dei nostri predecessori. La percentuale di scolarizzazione è in continua crescita e, dalla riforma dell’Università (il cosiddetto processo di Bologna), il numero di laureati nella popolazione italiana è aumentato vertiginosamente. E invece… la grande capillarizzazione dell’informazione e, forse, una conseguente (o innata?) attitudine a sentirci esperti di tutto (proprio grazie alla disponibilità di questa informazione) ci ha resi paradossalmente erogatori e divulgatori di stupidaggini. Così, come il SARS-CoV-2, l’ignoranza è diventata un virus che colpisce, ma che, come per il virus reale, non danneggia tutti allo stesso modo, finendo per condannare le fasce più deboli. Non tutti hanno le difese immunitarie adatte per affrontare questo tipo di “infezione” e, l’aver frequentato un corso di Biochimica o di Nutrizione all’Università, non rende apparentemente immuni dal contagio. Al contrario, fa sentire immuni e trasforma le persone in una versione analoga al “positivo asintomatico”, colui che pensa di non avere contratto il virus (pensa di saperne come gli esperti) e invece il virus lo diffonde come e più degli altri (divulgando notizie false). Se per il SARS-CoV-2 dobbiamo ancora aspettare, per l’ignoranza esiste, da sempre, un solo vaccino: l’informazione affidabile e verificata. Se invece di pretendere di sapere tutto e di saper giudicare quando una dichiarazione è vera o falsa, se invece di mitizzare i superfoods o demonizzare gli alimenti industriali, se invece di vaneggiare di vitamine che ci proteggono dal virus, ci limitassimo ad imparare da quello che sta succedendo sarebbe tutto migliore. Visto che siamo tutti professori, allora potremmo far riferimento al buon (non per chi lo doveva tradurre a scuola) Cicerone quando scriveva “historiamagistra vitae”, cioè “la storia è maestra di vita”. Cosa dovremmo imparare da quello che ci sta accadendo? Le cose semplici: che la spesa può essere fatta rispettando il proprio turno, che lo smartworking è una realtà attuabile, che dobbiamo elogiare e ricordarci di ringraziare il medico che ci cura, che dobbiamo aiutare coloro che sono in difficoltà o che sono soli, che una telefonata fatta alla nonna che, prima di sapere come stai, ti chiede se hai mangiato, vale oro. Dovremmo re-imparare il valore della famiglia o, molto più semplicemente, imparare ad amare un po’ di più. E forse, questo totale lockdown ci sta dando la possibilità di riscoprire qualcosa che (speriamo) non avevamo perso, ma solamente trascurato.
The great divide
Non dobbiamo però dimenticarci di trascurare il fattore “quelli di noi che possono permetterselo”. Perché, se è pur vero che abbiamo la fortuna di vivere in un mondo per molti aspetti migliore di quello dell’inizio del secolo scorso, con cure migliori, alimenti più sicuri e la possibilità di lavorare, come dicono italianizzando il termine anglosassone, in maniera “agile”, è comunque piuttosto evidente che non tutti siano nelle condizioni socioeconomiche ideali per goderne a pieno. Le differenze sociali, che, intendiamoci, sono sempre esistite, sono diventate ora forse ancora più evidenti. Chi non ha la possibilità economica di accedere agli alimenti che compongono una dieta sana o chi non ha gli strumenti che permettono di lavorare a distanza o di far seguire ai figli le lezioni on-line si ritrova in condizioni drammatiche nell’immediato, e, se non si palesa un intervento correttivo adeguato, la situazione non farà che peggiorare, trascinandosi anche dopo che la crisi sarà finita. Questo fatto ci porta all’ultimo punto di questo lungo e magari per alcuni noioso testo: quello che ci ricorda che sta anche a noi, individualmente, provare a cambiare le cose, da subito, per quanto possibile, e dopo, senza discussioni. In un primo momento, per fortuna apparentemente superato, quell’uom che, come descriveva Leopardi ne La Ginestra, d’eternità s’arroga il vanto, in un attimo ha visto sparire dalla propria mente certezze, sogni, progetti, per lasciare posto a panico, rassegnazione e paure, abbandonando per un breve lasso di tempo la propria umanità (o quel poco che ne rimaneva). Questo virus, che colpisce indistintamente tutti, ha fatto sentire tutti ugualmente vittime, e chi poteva permetterselo ha reagito in maniera bulimica, riempendo dispense di cibo, farmaci e mascherine, lasciando peraltro senza protezione, senza cibo e senza farmaci chi probabilmente ne aveva più bisogno. Poi, la sensazione di impotenza ha portato ad una sorta di evoluzione sociale, nella quale la nostra uguaglianza fisica di fronte alla minaccia ha reso particolarmente evidente le grandi differenze sociali e le ha fatte percepire come qualcosa da correggere, da curare. E allora sono cominciate le raccolte di fondi, le spese sociali, atti di solidarietà che prima del lockdown non avremmo nemmeno potuto concepire. “Quell’orror che primo, contra l’empia natura, strinse i mortali in social catena”, ancora da Leopardi, descrive in maniera attualissima quell’umana compagnia che va oltre la speranza, che ci permetterà di reagire. E reagiremo, ne usciremo, ma speriamo che questa guerra senza vincitori scolpisca nei nostri cuori queste sensazioni così evolute (o semplicemente riaffiorate) che stiamo provando, questo senso sociale di mare di superstiti uniti per ricostruire ciò che abbiamo perduto, in maniera migliorata e consapevole. Speriamo di ricordarci del momento in cui abbiamo capito di essere realmente uguali (nella vulnerabilità) e realmente diversi (nelle possibilità) anche quando la normalità sarà tornata.
E magari anche la nostra percezione degli alimenti, che oggi sono un bene dato per scontato da chi se lo può permettere, cambierà o, meglio, resterà cambiata. Magari avremo un occhio di riguardo alla riduzione degli sprechi. Magari ci ricorderemo di fare tutto il possibile perché tutti, ma proprio tutti, abbiano accesso ad alimenti di qualità, così da poter affrontare, mai accadesse, il prossimo ostacolo tutti dotati di quella resilienza che salva l’umanità.