Coronavirus, Liliana Dell’Osso: “Il crollo nel cielo di carta”. Di seguito la nota integrale inviata alla nostra redazione dal direttore della clinica psichiatrica dell’Università di Pisa, Docente universitaria e autrice e coautrice di numerose pubblicazioni a carattere scientifico.
C’è un dibattito in corso: si tratta di scegliere una posizione fra allarmismo e rassicurazione. Perché mai dovremmo? Di fronte ad un problema, occorre rimanere centrati sull’oggetto della discussione: non esiste un modo diverso di risolverlo. La ragione dell’altalena fra sentimenti di panico e importanti proclami rassicuranti è ovvia.
Le scienze biomediche, in questa emergenza, hanno dimostrato una volta di più il loro valore. Sappiamo molto su questo recente virus, oggi, dal punto di vista genetico, biochimico, epidemiologico. Abbiamo protocolli clinici efficaci. Possiamo agire, anche se questo verrà rapidamente dimenticato quando monterà la prossima ondata di fake news, che sia terrapiattismo o antivaccinismo. Oggi, davanti alla (possibile) epidemia o pandemia, abbiamo compiuto uno sforzo a livello internazionale. Tuttavia, ciò non significa che siamo pronti. Il rischio più grave è costituito dalle dimensioni potenziali del contagio. In presenza di un numero atipicamente alto di casi, infatti, potrebbero verificarsi problemi moderati o gravi per le strutture di assistenza, non tarate per un’ affluenza massiccia, sincronica e improvvisa. Mancano, per fronteggiare questo scenario, medici, letti di ospedale, farmaci, strumenti. Ed il fatto che la mortalità si concentri nella popolazione più anziana, dal punto di vista di una comunità, non è un elemento che consente di sottovalutare la questione: non esistono cittadini di serie A e cittadini di serie B. Senza reticenze, bisogna ribadire l’importanza di rallentare o fermare il numero di contagi.
Questa è la dimensione del problema. Il coronavirus, con la sua alta infettività ma relativamente bassa mortalità, pone una sfida che – più che clinica – è logistica. Per questo il panico è fuori luogo: occorre prontezza, esattezza, freddezza di fronte a questa sfida.
L’epidemia, quella vera, concreta e manzoniana, è sempre in agguato, sull’uscio delle nostre case. Il fatto che sino a ieri non ci pensassimo, non rendeva tale rischio minore. Eppure, viviamo in una realtà ovattata, fatta di scotomizzazione di morte e violenza, di politicallycorrect, che non ci prepara in modo adeguato a fronteggiare la benché minima incrinatura nel nostro artefatto stile di vita. Al punto che, di recente, alcuni gruppi di persone si sono sentiti così ingenuamente forti da rinunciare, o far rinunciare i loro figli, alla protezione offerta dai vaccini per altri tipi di malattie: a riprova di quanto lo spettro concreto dei disturbi di natura infettiva sia stato immotivatamente allontanato dal nostro sentire comune.
Siamo abituati a permetterci di trascurare la disinfezione delle ferite, o i sintomi del raffreddore, forti di un sistema sanitario che può fronteggiarne le conseguenze. Siamo abituati a poterci permettere di criticare i vaccini, perché grazie ad essi l’incidenza di disturbi ben più spaventosi del coronavirus si è così ridotta da farci apparire remoto il rischio del contagio.
Oggi, l’evenienza di un nuovo morbo, per i quali i rimedi non sono ancora stati approntati, ha fatto crollare il cielo delle false sicurezze che ci siamo costruiti, riportandoci alla realtà dei nostri avi, o dei nostri contemporanei meno fortunati. Non siamo costitutivamente più invulnerabili di loro, né meno esposti alle conseguenze di un’epidemia, che sia il Covid-19 o la peste del Seicento, se non grazie all’avanzamento delle conoscenze mediche, comprese le norme igieniche e le pratiche preventive. Di fronte a questa emergenza, che potrebbe benissimo non essere l’ultima nella nostra esperienza biografica, siamo quindi chiamati a coadiuvare gli sforzi quotidiani di moltissimi professionisti, con lo scopo di limitare i contagi di un virus influenzale ad alta infettività. Abbiamo delle linee guida, e tutte le informazioni necessarie.
Dal coronavirus possiamo imparare. Lo sforzo di coordinamento e di studio può condurre a un potenziamento del nostro sistema sanitario. Si può impiegare questa occasione per creare un canale diretto con le istituzioni sanitarie, per potenziare l’informazione e la disseminazione di informazioni relative alla salute pubblica. Si può andare a favorire una nuova coscienza civica. La salute è un valore fondamentale, positivo, da ricercare. Lo si è sostenuto da così tanto tempo, soprattutto nei paesi con assistenza sanitaria pubblica, che ormai lo si sta dimenticando.
Cedere quindi alla preoccupazione, quasi ci trovassimo a fronteggiare un pericolo al di fuor della nostra portata sarebbe errato: si tratta di un’evenienza che fa parte della vita dell’uomo di tutte le epoche, e, al di fuori dell’edulcorato mondo occidentale, anche la nostra ne è stata costellata fino a ieri. Chi pensa che ci sia qualcosa di nuovo sotto il sole pecca dunque di ingenuità. D’altra parte, rifugiarsi in prospettive rassicuranti che conducano a sottovalutare le norme igieniche e le indicazioni preventive sarebbe altrettanto ingenuo: significherebbe continuare a indulgere in immotivate e incongrue prospettive di invulnerabilità, o di possibilità di cura, dimenticando che le basi che ci hanno permesso di vivere in serenità sino a oggi sono proprio le incrementate conoscenze scientifiche. Le stesse che ci fanno raccomandare di stare a casa, di evitare gli incontri, evitare i contatti, e tutti gli spostamenti non necessari.
Un atto responsabile, come nel caso dei vaccini, non solo nei confronti di se stessi, ma di tutta la comunità. Non si tratta dunque di preoccuparsi, ma di occuparsi di un problema, anche se questo comporta modificare radicalmente, per un po’, il proprio stile di vita, bandendo tanto il panico che la faciloneria e seguendo le norme in modo responsabile, ragionevole, scrupoloso.