Vincenzo Maida (Centro Jonico Drus): “L’effetto placebo”. Di seguito la nota integrale.
Recuperare il rapporto medico-infermiere-paziente è fondamentale, ma servono le risorse e la valorizzazione delle professioni.
In questi giorni su diversi canali televisivi sono andati in onda alcuni servizi relativi all’emigrazione di profili sanitari, medici e infermieri ( negli ultimi tre anni sono andati all’estero in circa 20.000), che stanno impoverendo il servizio sanitario nazionale, mentre siamo stati costretti a reclutare medici da Cuba e Infermieri dall’India.
Alcuni infermieri emigrati in Norvegia ci hanno informato che lì guadagnano più del doppio dello stipendio in Italia e possono arrivare a sfiorare anche le 5.000 euro al mese, hanno l’alloggio gratis e devono prendersi cura, durante l’orario lavorativo, di massimo sei o sette pazienti, con la possibilità quindi di dedicare a ciascuno di loro più tempo.
Quanto sia importante un rapporto appropriato tra un sanitario, che non dovrebbe andare di corsa, ed i pazienti, lo rivela uno studio sull’effetto placebo.
Un padre di famiglia raccontò che uno dei suoi figli, in primavera, come si usa negli istituti scolastici, doveva andare in gita con il bus.
Il ragazzo soffriva da sempre di mal d’auto, per cui doveva necessariamente assumere l’apposita pillola con il principio attivo per evitare quel malessere che, quasi sempre, sfociava anche nel vomito.
La sera prima raccomandò il padre di comprare il farmaco, ma lui se ne dimenticò.
La mattina dopo aveva due possibilità: o ammettere la dimenticanza, con il rischio che il ragazzo preso dal terrore di sentirsi male rinunciasse alla gita, oppure, inventarsi qualcosa.
Aveva di recente letto un articolo sull’effetto placebo, per cui decise di rischiare.
Presa la boccettina di un altro medicinale, tolse l’etichetta, la lavò per bene e poi mise dentro dell’acqua.
Chiamò il figlio e gli chiese di venire con un bicchiere d’acqua in cui versargli le gocce contro il mal d’auto, accompagnò l’operazione con parole persuasive per convincere più se stesso che il figlio.
Il ragazzo partì convinto di aver assunto il farmaco con il principio attivo e miracolosamente, pur avendo di fatto bevuto solo gocce d’acqua del rubinetto, non avvertì, per la prima volta senza aver assunto il farmaco, alcun malessere.
Egli aveva ottenuto un effetto placebo, un termine che etimologicamente deriva dal latino” piacere” che significa “io piacerò”, il suo opposto lessicale è nocebo.
Episodi simili a quello narrato, in letteratura ce ne sono a iosa e le ricerche scientifiche hanno dimostrato che effettivamente se un paziente è davvero convinto che quel farmaco funziona e dal quale ha tratto benefici, anche se gli viene somministrato solo acqua dallo stesso contenitore, egli potrebbe avere gli stessi risultati del farmaco con il principio attivo.
“Naturalmente – ha scritto Fabrizio Benedetti sull’Enciclopedia Treccani – il miglioramento clinico osservato dopo la sua assunzione non è dovuto né al bicchiere d’acqua né alla zolletta di zucchero, bensì alle suggestioni verbali di miglioramento che vengono fornite al paziente. Tale processo coinvolge una serie di complessi meccanismi psicologici e neurobiologici che solo ora cominciano a essere compresi. In altre parole, lo studio dell’effetto placebo è lo studio del contesto psicosociale intorno alla terapia e dei suoi riflessi sul cervello del paziente. L’effetto placebo è, dunque, un fenomeno che, al pari di altri, come l’analgesia da stress, aiuta a comprendere come il dolore e ulteriori sintomi vengano modulati da fattori cognitivi ed emotivi.”
Questo significa che psiche e corpo interagiscono e la prima è capace di condizionare il secondo.
Infatti si sta sempre di più analizzando il fatto che in moltissimi casi la psiche è capace di scatenare un naturale processo di guarigione del corpo e l’effetto placebo può esserne il detonatore, insieme alle aspettative positive sia del paziente che del medico, che empaticamente ripongono in una determinata terapia.
Per alcuni anche molti “miracoli” rientrerebbero in questa fattispecie.
Lo stesso rapporto medico paziente e il valore terapeutico della parola, la capacità del primo di infondere fiducia, di ascoltare, ha un ruolo fondamentale nel processo di guarigione.
Dal positivismo ad oggi è prevalsa una visione meccanicistica del corpo umano, come se fosse una macchina i cui pezzi, quando sono usurati, vanno o riparati o sostituiti, ma arriva un momento in cui a causa dell’usura complessiva, non è più possibile né l’una, né l’altra cosa e l’intera macchina va demolita.
L’approccio terapeutico deve essere di carattere “olistico”, deve cioè tener conto di tutte le componenti dell’essere umano.
É di fatto un ritorno alle antiche culture e a quello che esse hanno sempre predicato e cioè che le emozioni, le aspettative e le credenze dell’uomo hanno un’influenza diretta sulla sua biologia e sui processi di guarigione della malattia.
Una volta il medico a casa del paziente si sedeva vicino al suo letto, lo ascoltava, interagiva psicologicamente con lui e oltre che dal farmaco, il corpo del paziente era stimolato dalla fiducia che egli riponeva nel medico.
Questo tipo di rapporto si è perso negli anni e andrebbe recuperato, nella consapevolezza che la medicina non è una scienza esatta e le variabili e gli imprevisti sono sempre dietro l’angolo.
Per cui da una parte il medico deve recuperare lo spirito autentico di una professione diversa da tante altre e dall’altra il paziente e i suoi familiari non devono ricorrere per ogni evento imprevisto e imprevedibile alla carta bollata, ma solo in caso di colpa o di negligenza grave.