Il materano Roberto Galante, project manager del laboratorio A Mundzuku Ka Hina di Maputo per conto dell’associazione Basilicata Mozambico Onlus di Matera ha inviato alla nostra redazione il report che racconta il viaggio da Roma a Maputo per avviare una nuova missione umanitaria. Di seguito il testo integrale.
Siamo proprio arrivati.
Dopo una giornata passata a Roma immersi in alchimie nel calibrare pesi, materiali tecnici e pedagogici, libri, vestiti, piccoli regali, qualche sfizio, dicasi parmigiano, etc… in valige che non superassero i 23 Kg di peso, quindi un viaggio di 14 ore immersi in un dormiveglia di passaggio e tutto sommato abbastanza piacevole, l’aereo è atterrato a Maputo.
La sosta ad Adddis Ababa ci aveva regalato un’alba di una impalpabile luce radente, di quelle che riempiono gli occhi e saziano l’animo. Dentro questo scrigno di riverberi e colori, all’improvviso una visione che sembrava provenire da mondi di fantasia. Ai margini del moderno aeroporto, la carcassa di un grosso aereo vecchio stile, di quelli che ormai possiamo vedere solo nei film d’epoca o nelle memorie dei nostri padri. Un aereo circondato da capanne e recinti di rami, a sua volta trasformato in piccolo ma vitale mercato ed una amara considerazione.
Giannino, nella sua semplicità mi ha fatto notare la vitalità brulicante dell’aeroporto di Addis alle 5 del mattino, le razze e le tipologie umane che si incrociano, il fermento, i movimenti e le diverse dinamiche comportamentali che caratterizzano i vari gruppi o le singole persone, la varietà del vestire, delle lingue e del gesticolare accompagnati dalle ancor più varie acconciature, contrapposti alla piatta staticità dell’aeroporto di Roma alle otto di sera.
Calma piatta. movimenti rarefatti, staticità.
Il vuoto.
Uniformità nei modi di vestire, di camminare, di relazionarsi. Piccole variazioni sullo stesso tema. Una sorta di omologazione nel nulla assoluto. Anche questo è un segno di decadenza mi ha fatto notare Giannino.
Nel lungo tragitto a piedi per arrivare al gate e dal gate all’imbarco seguendo ad intuito indicazioni rarefatte, uno stanco signore indiano ci ha fatto notare che “così in India era venti anni fa. Ora negli areoporti indiani ci sono percorsi automatizzati e facilmente fruibili…”
Lo sbarco ed il passaggio alla dogana di Maputo, con i nostri 5 valigioni da 23 Kg l’uno infarciti di libri, tecnologia e parmigiano, più altri 25/30 Kg distribuiti in 4 bagagli a mano, era filato liscio e i doganieri allegri, conviviali e sopratutto veloci. Stranamente nessuno ha chiesto in un modo o nell’altro una qualche mazzetta.
Tutto troppo liscio.
La prima sorpresa l’abbiamo trovata all’uscita. Nonostante gli accordi presi e più volte ripetuti, non c’era nessuno ad aspettarci. Eppure Fred ci aveva assicurati che sarebbe stato lì ad aspettarci. Scoramento. Cosa fare con tutti quei bagagli, senza telefono adatto a comunicare in loco ed una buona dose di rincoglionimento e di stanchezza. Non rimane altro che aspettare. Oltretutto mi accorgo che il mio cellulare è definitivamente partito e con esso buona parte dei miei contatti.
Dopo circa una mezz’oretta di attesa, elaboro il famoso piano B.
Esiste sempre un piano B. Mi avvio in cerca di un ufficio cambio e getto l’occhio alla ricerca di rivenditore di schede telefoniche. All’improvviso, come apparso dal nulla, sorridente mi viene incontro Fred. Mi abbraccia. È felice di rivedermi. Io ancora di più.
Va a prendere la macchina. È un fuori strada vecchio tipo con cassone, un po’ scalcagnato come d’abitudine le macchine di Fred. Non glielo avevo mai visto. Il motore si blocca nel mezzo della strada e stenta a rimettersi in moto. Le altre macchine in fila cominciano a clacsonare. Alla fine riesce a raggiungerci. Fred ci spiega che la sua macchina proprio ieri si è rotta. Se ho capito bene è la scatola del cambio. Quella con cui è venuto è la macchina del suo “Padrigno” e che deve restituire abbastanza velocemente. Come dato di fatto siamo senza trasporto per i prossimi giorni, la fase più delicata ed impegnativa del nostro lavoro.
È solo l’inizio. L’esperienza ci suggerisce che alle cattive notizie non aggrada viaggiare in solitudine.
Amano la compagnia.
Siamo circondati da un nugolo di ragazzini vocianti che speranzosi di una mancia si contendono le nostre valige, quasi ce le strappano di mano. Cercano di aiutarci creando più che altro nella mia testa frastornata ancor più caos e confusione. Carichiamo il tutto tra casse di bottiglie vuote ed altri oggetti indefiniti e finalmente si parte.
Usciamo dall’aeroporto ma non prendiamo la strada di casa di Gina. Fred ci spiega che proprio quella mattina la signora Gina gli ha telefonato comunicandogli che ha problemi a lasciarci la casa. Il suo figliolo si deve operare etc… etc…. di quelle argomentazioni che non sai se profumano di dolore o di presa per il culo. L’ accordo con Gina lo abbiamo raggiunto circa 2 mesi fa. Ho sentito via telefono la signora Gina qualche giorno fa e Fred addirittura ieri. Questa improvvisa malattia con operazione urgente lascia un po’ perplessi.
Di fatto siamo senza casa, senza un posto dove lasciare i nostri bagagli, non possiamo recuperare il materiale didattico e tecnico lasciato dalle suore ed organizzare il nostro lavoro.
Gli ambiziosi obbiettivi di giornata, ma anche di settimana subiscono un secondo, ancor più duro colpo. Per fortuna, nel mezzo a cotanta sventura, Fred è riuscito nel pochissimo tempo a sua disposizione, oltre ad un’atra macchina, anche a trovarci un posto provvisorio dove poggiare le cosiddette chiappe in attesa di positive, si spera, evoluzioni. Presso le suore nel bairro di S. Joaquin. Solo 2 notti.
Ci avviamo verso il Bairro. Non faccio in tempo a notare come il traffico ad ogni giro diventi più denso, caotico e lento, le strade sempre più disastrate e le buche sempre più profonde che la macchina si ferma nel mezzo della strada in un fiume di macchine e carretti. La frizione sembra non funzionare più. Le marce non entrano. Lo stratagemma di Fred: mettere in moto con la marcia ingranata. A sobbalzoni la macchina sembra reagire e va in moto, sfiora altre macchine che si addensano intorno. Fa qualche metro e la fila si ferma e così il nostro motore. Si va avanti in questa maniera per qualche decina dimetri e tanti sforzi conditi da clacsonate ed imprecazioni. Fred si ferma e sembra rinunciare, il suo stratagemma non funziona. Anch eper lui necessita di elaborare il famoso piano B. in tempi brevissimi. Il cielo si addensa di nuvole e promette tempesta. Già arrivano le prime gocce.
Pensare ai nostri bagagli infarciti di tecnologia scoperti e fermi in mezzo a quel caos mi mette male. Non ho proprio voglia in quel momento di mettermi a fare il guardiano a difesa dei bagagli. Seduto sul cassone, magari sotto la pioggia. Scoglio nel mezzo di un mare di traffico in tempesta, tra flutti di bramosie poco sane. Mi rifiuto di pensarci. Sono troppo stanco e senza casa e senza telefono.
Guardo Giannino e Giannino guarda me e ci diciamo
“siamo veramente arrivati”
“Benvenuto in Africa”
Giusto per la cronaca ha cominciato a piovere. La strade di terra del bairro sono una serie di pozze d’acqua di notevoli dimensioni. Una gimcana di auto per evitare trabocchetti che si celano nel fondo delle acque e blocchi di pietra. Percorribili solo per chi, esperto conosce i fondali e le insidie.
Il mio bancomat non funziona. Non so se ringraziare il circuito internazionale in terra d’Africa o gli ineffabili servizi della BCC in quel di Pontassieve dove ora vivo e con cui non si riesce ad andare d’accordo anche nelle cose più semplici.
In compenso il piccolo convento, una costruzione semplice, spartana ma accogliente è un’oasi di pace e serenità circondato da un orticello, fonte primaria dei nostri semplici pasti. Un’anziana e simpatica suora lo coltiva.
Domani è un altro giorno.
La notte è piena di pioggia
le rane africane sembrano tenori dell’opera nel mezzo di un concerto. Ci accompagnano lungo tutta la notte.
Benvenuti in terra d’Africa.