Basilio Gavazzeni: “Sui poveri e sul soccorso a Matera”. Di seguito la nota integrale.
È noto come nel mondo il numero e la qualità dei poveri sia mutato nei due decenni di questo millennio. Le crisi economiche seguite al fallimento di Lehman Brothers nel 2008, alla pandemia di Covid-19 e all’impatto dell’invasione russa dell’Ucraina, hanno sgonfiato i sogni di una crescita economica sicura e illimitata. La questione della povertà è incrudita sollecitando dovunque risposte concrete. Si riconosce che in Italia ritardi e inefficacia hanno impastoiato le misure di contrasto. Il tormentone del Reddito di Cittadinanza, del salario minimo e delle alternative ne è la prova più esplosiva. Nella nostra città, l’ho già scritto, sfuggono il numero e la qualità dei poveri, a causa della disunità di coloro che la contrastano e di una malintesa tutela della privacy. Quanti e chi sono i nostri poveri? Nella diffusa petulanza natalizia – vedansi volantini e calendari invasivi, di parte, troppo di parte, a piovere sul bagnato – si tessono narrazioni che insidiano e confondono le anime benefiche. Fossimo tutti uomini di carità, senza il menomo interesse! I cosiddetti poveri, poi, se tali, non hanno il diritto di soverchiare occhiutamente, offendere e mentire. I soccorritori non devono farsi circuire e dominare dai più ribaldi fra loro. Un volontario temprato è svelto, franco, niente birignao con la boccuccia a culo di gallina, niente paternalismo. Il soccorritore che non è peloso si percuote dentro perché non può dar di più. È consapevole che il soccorso che allunga è minimalista – quanto minimalista, Dio mio! – e non se ne vanta. Si rammarica che il bisogno costringa altri a tendergli la mano. Sente, infine, con scrupolo, che in realtà è separato dai poveri, perché gode di una stabilità economica ermeticamente siliconata, trapunta di gadget progressivi e soddisfatta.
Ella, essa o lei?
Da anni un moto di stizza mi prende all’Immacolata quando nella Messa proclamo il Vangelo dell’Annunciazione. Nel Lezionario la versione del brano di Luca (Lc 1,26-27) lascia molto a desiderare. Per quale ragione? È che il versetto 29 registra alle parole dell’angelo Gabriele che “ella (Maria) fu molto turbata”. Poi il versetto 36 riferisce che Elisabetta, sua parente, nella sua vecchiaia, “ha concepito anch’essa un figlio”. A mio parere, ben aggiornato, al posto del pronome personale ella dovrebbe esserci lei, senza esitazioni. Egualmente al posto di essa, che pigramente è applicato a persona solo nelle scartoffie. Opiniuncola privata, la mia? Mi giunge il “Nuovo Testamento greco – italiano”, edito dalla Società Biblica in Italia Claudiana. Oltre il testo greco offre agli studiosi la versione italiana, CEI 2008, usata nella liturgia cattolica, e la versione della Bibbia italiana della Riforma, (BIR 2020). Da questa nel versetto 29 si traduce: “Lei, a queste parole […]”. E nel versetto 36: “[…] anche lei, nella sua vecchiaia, ha concepito […]”. Senza temere che, due righi dopo, il lei si riaffacci (“il sesto mese per lei”). Alla Madre di Cristo nell’Ave Maria diamo del tu. A fortiori le spetta il lei, non il ricercato ella. L’ho detto anche a un amico la cui Teologia mariana è la migliore che si trovi. Per antica formazione, anche lui, del pronome ella riservato alla Madre di Dio, fa grande abuso. Alberto, convertiti.
Lacrime e lacrime
Ci sono persone che hanno irriso le lacrime di Cristiano Ronaldo dopo la sconfitta calcistica inferta dal Marocco al Portogallo. Sic transit gloria mundi, hanno gridato impropriamente, ròse dall’invidia per un uomo comunque fortunato, che non è ancora sul viale del tramonto. Sulla qualità di quel pianto non mette conto aprire una fenomenologia. Dispiace veder piangere un uomo che, tuttavia, in questo modo, riguadagna salutarmente il battesimo dell’infanzia. Sunt lacrimae rerum et mentem mortalia tangunt (Aen I 462): la Storia è lacrime, e l’umano soffrire commuove la mente, voleva dire Virgilio, secondo un autorevole latinista. Al pianto di papa Francesco, il giorno dell’Immacolata, è invece necessario dedicare la più ampia e partecipe ermeneutica. Impossibile non aver condiviso il suo fremito di pietà per l’Ucraina e, di sicuro, per lo Yemen, il Libano, l’Etiopia, l’Iran e le vittime che cadono dovunque. La chiave d’interpretazione di quel pianto è nel Vangelo di Matteo, che attesta la commossa esclamazione di Gesù davanti alla resistenza opposta da Gerusalemme alla sua grazia, di Lui frustrato nel ripetuto tentativo di raccoglierne i figli “come una gallina raccoglie i pulcini sotto le ali” (cfr Mt 23,37-39).
Quel dolce pome che tutti bramano
Terza domenica d’Avvento, detta “Gaudete”. È san Paolo a riscuoterci: “Rallegratevi sempre nel Signore ve lo ripeto, rallegratevi, il Signore è vicino” (Fil 4,4-5). Ce n’è bisogno, perché nel fosco orrore di quest’anno quasi estinto, come Giovanni Battista, affondato in una delle segrete di Erode, sembra aver perduto il lume del carisma di Precursore, anche noi siamo immersi nelle tenebre e vorremmo proprio sapere se Lui viene. Abbiamo bisogno di gioia, anzi di felicità, “quel dolce pome che per tanti rami / cercando va la cura de’ mortali” come la definisce Dante (Purg. XXVII 115-116). Chi ce la darà se non Dio che è gioia e felicità? Il filosofo tedesco Edmund Husserl scrive: «La fede rende beati, la fede è propriamente la forza vincente, perché è la sorgente di tutta la forza al cospetto delle forze insensate della morte, del destino, della miseria immensa, della debolezza e del peccato che trascinano in basso». Non posso non citare Thomas Merton, di cui rileggo il recuperato best-seller “La montagna delle sette balze” : “[…] Vi è felicità solo dove esiste coordinazione con la verità, la Realtà, l’Atto che compenetra ogni cosa e la indirizza alla sua perfezione essenziale e accidentale: la volontà di Dio. Vi è una sola felicità: essere in armonia con Lui. Un solo dolore: dispiacerGli, rifiutarGli qualcosa, allontanarsi da Lui, anche minimamente, anche col pensiero, in un impulso di appetito quasi inconscio; in queste cose e in queste soltanto vi è il dolore, in quanto esse implicano separazione, o il principio, la possibilità di separazione da Lui che è la nostra vita e tutta la nostra gioia”.
Animalù a a Mèssa
Scèt incö l’è Nedàl a a Mèssa (Figlio oggi è Natale va a Messa): così mio padre, alle soglie di una viridis senectus, a mio fratello che ancora gli bighellonava intorno, quando la campana della Messa vespertina di Natale aveva dato l’öltem sègn (l’ultimo rintocco). Con la spiccia brutalità del dialetto bergamasco già ogni domenica gli diceva: “Animalù a a Mèssa” (Bestione va a Messa). Me le covo con riconoscenza quelle parole, che furono performative, di un uomo catechizzato secondo il Concilio di Trento. Esemplarmente peccatore di specie comune, probo e felice. Rifletto sulla semplicità sovrana di quel cristianesimo all’oscuro di ogni sottigliezza teologica, costruito sui misteri della vita di Cristo. Anche allora la carne, il mondo, il diavolo contendevano gli uomini a Dio. Ce n’era coscienza e se ne controbilanciavano con vigore le seduzioni ricorrendo ai sacramenti. Sia chiaro:non c’è motivo, tuttavia, di aver nostalgia del passato se puntiamo alla sostanza.
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